Prima Guerra Mondiale – Sfoggiare Inutile Erudizione https://www.inutile-erudizione.it Una valida alternativa a YouPorn Sat, 28 Mar 2020 21:20:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.2 Francis Pegahmagabow https://www.inutile-erudizione.it/francis-pegahmagabow/ https://www.inutile-erudizione.it/francis-pegahmagabow/#respond Wed, 09 Oct 2019 16:57:25 +0000 https://www.inutile-erudizione.it/?p=2582 Trovo sempre strano come reagisca (male) la memoria umana di fronte ai fatti storici conclamati.

Un classico esempio è la tendenza a immaginarsi la Prima Guerra Mondiale come combattuta solo tra le grandi potenze europee, dimenticandosi che tra quei QUINDICI MILIONI E MEZZO di morti (sommando soldati e civili) ci sono persone provenienti da quasi ogni nazione del pianeta.

Ci si scorda facilmente della componente MONDIALE della ‘Grande Guerra’, presi come siamo dai confusi flashback delle nostre trincee fangose.

Il Canada, per esempio, partecipa attivamente agli scontri schierando uomini nel teatro bellico sin dal primo giorno a fianco degli Alleati. Il paese raggiunge il suo più grande trionfo il 9 aprile 1917 quando durante la battaglia di Vimy Ridge (nei pressi di Calais) i soldati della foglia d’acero conquistano dalle mani tedesche l’intero crinale fortificato di Givenchy-en-Gohelle, fondendo nell’assalto un’accurata preparazione tattica a un coraggio che non impedisce però a 3598 uomini del Canadian Corps di tornare a casa sdraiati in una bara.


Quello che proprio in pochi sanno è che l’esercito canadese ha avuto dalla sua uno dei più grandi esploratori e cecchini dell’intero conflitto. Quello che quasi nessuno ricorda è che per un lungo periodo della sua vita egli non è stato considerato dai suoi compatrioti nemmeno degno di appartenere alla sua stessa nazione, come spesso accade alle minoranze finché non arriva un qualche suo esponente che si dimostri ‘utile’ (oggi in Italia accade con i campioni dello sport, finché vincenti).

Ma andiamo con ordine.

Chi fra voi è un appassionato di manga ben conoscerà l’infinita opera del mastro procrastinatore Kentaro Miura, quel Berserk che tanto ha fatto la felicità di chiunque ami gli oggetti troppo grandi per essere chiamati spada, gli smembramenti e i cannoni innestati sui moncherini. Ci sono varie scene notevolissime nella vita di Gatsu -il protagonista della serie, se siete tra quelli che non hanno nemmeno una goccia di sangue nerd nelle vene-, ma una delle prime che ti vengono sbattute in faccia è la sua nascita, ai piedi del cadavere della madre impiccata.


Cosa c’entra col nostro protagonista di oggi? C’entra, se considerate che non abbiamo una sua vera e propria data di quando è nato perché viene trovato nella riserva di Shawanaga (nelle vicinanze di Nobel, in Ontario) il 9 marzo 1891, a fianco della madre deceduta nel metterlo al mondo a causa delle complicanze di una malattia respiratoria. A trovarlo a poche ore da un’infelicissima dipartita è Noah Nebimanyquod, un amico del padre (morto tempo prima per la stessa malattia della moglie) che gli aveva promesso di prendersi cura del piccolo, qualora ne avesse avuto bisogno.


Francis cresce così all’interno dei confini della riserva in cui la cultura Anishinaabe (il miscuglio di tradizioni provenienti da varie tribù native che qui hanno trovato rifugio dopo secoli di sterminio, guerre, malattie, carestie, razzismo ed esodi) viene protetta dal ‘trattato di Huron’ che dal 1850 AD OGGI, garantisce loro l’extraterritorialità all’esorbitante somma di QUATTRO DOLLARI ANNUI.
Qui il nostro eroe apprende le tecniche di caccia, pesca e il culto degli antenati (mischiato irrimediabilmente con il Cristianesimo) e quando è abbastanza grande gli viene dato il suo ‘vero nome’, Binaaswi, che in lingua Ojibwe suona più o meno come ‘Vento che Soffia’.

A ventuno anni si dimostra abbastanza intraprendente e intelligente da ricevere una borsa di studio per terminare i suoi studi mentre trascorre le estati a lavorare come Vigile del Fuoco per conto del dipartimento della Marina e della Pesca dei Grandi Laghi.

Molto più di quello che facevo io alla sua età, nell’ormai lontano 2008, perso fra le innumerevoli combo di Soul Calibur IV.

Agosto 1914: il Canada si è accorto dopo un mese dallo scoppio del conflitto mondiale che escludere dal suo corpo di spedizione (interamente volontario) le minoranze è un’idea abbastanza barbina, specie considerando che ogni essere umano in grado di restare eretto e reggere un fucile è un potenziale bersaglio in più per il nemico. Francis è uno dei primi ad arruolarsi, insieme a molti altri, spinto da una variegata mescolanza di sentimenti quali la voglia di avventura, quella di vedere il mondo, quella di dimostrare a tutti quanto vale e quella di ricoprirsi di gloria.

Avrà modo di pentirsene, anche qui come molti altri.

Viene inserito nel 23esimo reggimento canadese, i Northern Pioneers, che per non smentirsi hanno come simbolo una fottutissima alce e un motto cazzutissimo: “Noi guidiamo, gli altri seguono”.


Mentre vengono acquartierati per l’addestramento nella base di Valcartier (nord est del Quebec) il nostro eroe si fa notare per le decorazioni tribali che ricoprono la sua tenda (fra le altre un caribou, simbolo del suo clan) che gli vengono concesse nonostante lo stringente regolamento militare a patto di guadagnarsi il soprannome di ‘Peggy’ che lo accompagnerà per tutto il conflitto e che nasce dalla chiara difficoltà dei suoi istruttori di pronunciare il suo nome Ojibwe.

Nel febbraio 1915 comunque le pinzillacchere sono finite e l’intero primo battaglione fanteria della prima divisione canadese poggia i suoi acerosi piedi in Europa a fianco degli Alleati, in una guerra che in molti hanno già visto diventare uno scontro immobile, terribile e fangoso sepolto nelle trincee scavate fra i cadaveri.

22 aprile, ore 17:30: i tedeschi nei dintorni della cittadina belga di Ypres hanno atteso di trovarsi con il vento a favore e ora stanno aprendo con precisione maniacale i manicotti di CINQUEMILASETTECENTOTRENTA BOMBOLE CONTENENTI CENTOSESSANTOTTO TONNELLATE DI GAS CLORO, che si spargono velocemente lungo sei chilometri del fronte causando la morte orribile di CINQUEMILA SOLDATI NEL GIRO DI DIECI MINUTI -il cloro brucia occhi e polmoni come un cerino gettato in un mucchio di foglie secche e cosparse di benzina in una giornata ventosa, solo che le foglie urlano di meno-.


Il gas liberato ha anche un’altra caratteristica molto utile in un frangente come quello della guerra di trincea: è più pesante dell’aria, quindi tende ad accumularsi verso il fondo fangoso dove trova le truppe coloniali algerine della 45esima Divisione francese che capiscono molto in fretta che restarsene nascosti (senza essere adeguatamente equipaggiati) equivale a morire malissimo, quindi (giustamente) si ritirano lasciando dietro di sè una breccia enorme che nemmeno i tedeschi si aspettavano e per cui non hanno preparato abbastanza rincalzi per occupare le posizioni abbandonate.

“Où vous allez les fous?”
“Recouvrir la brèche!”
“Vous êtes fous? Le gaz va tous vous tuer!”
“Non ,tant qu’on a de la pisse dans la vessie! Allez les hommes! Nous conduisons, les autres suivent!”

(“Dove cazzo andate, folli?”
“A coprire la breccia!”
“Siete pazzi? Il gas vi ammmazzerà subito!”
“Non finché abbiamo del piscio nella vescica! Avanti uomini! Noi guidiamo, gli altri seguono!”)

Le truppe canadesi hanno capito una cosa prima di tutti gli altri: con il vento a favore qualsiasi cosa che non sia una ritirata pone gli Alleati in una posizione difficilmente difendibile.

Qualsiasi cosa eccetto un’avanzata.

Se è pur vero che il cloro ha devastato le trincee, il vento sta continuando a soffiare spingendo il gas sempre più lontano. Di contro in una situazione come questa il posto più sicuro è il più vicino possibile al nemico.

Immaginate di essere un soldato tedesco:
siete sicuri che il vostro attacco ha sterminato le fila nemiche. Avete sentito chiaramente i rantoli e i lamenti di chi annaspa in cerca dell’ultima boccata d’aria prima di morire. Certo, usare il gas non è il combattimento glorioso che vi aspettavate quando vi siete arruolati ma dopo quasi un anno di trincea siete disposti a usare qualsiasi mezzo purché vi faccia tornare in fretta alle vostre…

*rumore di sparo*

Dalla trincea alleata fanno capolino delle sagome intabarrate che si intravedono a stento nella nube di gas mortale.


Sono i canadesi, che avanzano schiacciandosi sulla faccia dei fazzoletti intrisi di urina -non si conosce il nome di chi ha avuto l’idea, ma senz’altro era una persona con delle conoscenze in chimica dato che l’ammoniaca del piscio è in grado di reagire con il cloro, neutralizzandolo- e sparano a qualsiasi cosa faccia anche solo il gesto di alzare la testa fuori dai ripari.

Il fronte è ricompattato e la linea alleata regge, nonostante i ripetuti attacchi, fino a 3 maggio.
L’ingresso in guerra dei canadesi in questa maniera eroica vale loro il massimo del rispetto per aver difeso una posizione considerata ormai persa (si teorizza che se i tedeschi avessero sfondato a Ypres sarebbero stati a un passo da Parigi) nonostante i più di mille morti e quattromila feriti su un totale di diecimila soldati dell’intero corpo di spedizione.

E Francis? Il nostro eroe in quei giorni maledetti si è fatto un nome per le sue grandi doti di scout (che in una guerra di trincea equivale nel sapersi muovere nella ‘Terra di Nessuno’, le decine o centinaia di metri -va a seconda- che separano due trincee solitamente zeppi di mine, filo spinato, cadaveri, crateri di bombe e potenzialmente battuto centimetro per centimetro dallo sguardo di chiunque possegga un fucile nell’arco di chilometri) e le sue ancor più eccezionali capacità di cecchino, che gli portano sul campo la promozione a caporale tra l’approvazione dei compagni.

Muoversi qui in mezzo non doveva essere bello.

Primo luglio 1916, ore 7:30: lungo i circa sessanta chilometri di fronte che vanno da Hébuterne a Lassigny (Francia settentrionale) ha inizio un’impressionante serie di offensive alleate nel tentativo di alleggerire l’enorme pressione tedesca su Verdun e rimescolare così le carte in tavola sul fronte occidentale.

Le manovre avvengono in un settore tagliato in due dal fiume Somme, che darà il nome a questa mattanza spaventosa in cui UN MILIONE E DUECENTOMILA UOMINI troverà una morte più o meno orribile a seconda dei casi. Ironico se si considera che il nome ‘Somme’ arriva dal latino ‘Samara’ che ha mutuato dal celtico la parola ‘Tranquillità’.

In quei giorni di tranquillo non c’era proprio un cazzo.

Dopo una settimana di bombardamenti preparativi e lo scoppio di dieci enormi mine -che ai più attenti fra voi dovrebbero ricordare qualcosa l’idea degli anglo-francesi era quella di avanzare con un’enormità di fanteria che avrebbe poi aperto dei varchi per il passaggio della cavalleria che (sempre secondo i piani) avrebbe portato ad una definitiva vittoria.

Non è la prima volta (e non sarà l’ultima) che i progetti escogitati da vecchi generali impomatati si rivelano essere una porcata allucinante.

I tedeschi, ben protetti dall’artiglieria nei loro ‘stollen’ (‘rifugi’) riprendono agilmente le posizioni e si ritrovano davanti una mastodontica massa di uomini che procede a passo di marcia nella terra di nessuno.

Non devono nemmeno mirare, basta premere il grilletto.


A peggiorare le cose (se possibile) dopo quattro mesi di inutili assalti arriva una pioggia incessante che tramuta il terreno scavato, rivoltato e massacrato in un’unico grumo di fango appiccicoso. Il 19 novembre terminano le ultime fasi della battaglia e la quantità di corpi lasciati sul terreno è un qualcosa che, pur sforzandoci, ci risulta inimmaginabile.

Fun facts: Otto Frank (il padre di Anna), Adolf Hitler e J.R.R. Tolkien erano presenti in questa battaglia come fanti. Pensate come sarebbe potuto cambiare il mondo se degli Hobbit avessero ucciso il Fuhrer trafiggendolo con Pungolo, prima di scrivere le loro memorie nascosti in una soffitta.

Basta con la droga, dai.

E Francis (di nuovo)? Anche in questo frangente il primo battaglione canadese viene schierato come rincalzo d’assalto durante l’offensiva, ma per il nostro protagonista stavolta va un po’ meno bene di Ypres e rimedia una ferita alla gamba sinistra (non grave abbastanza per ritornare a casa) da cui si rimette in tempo per essere trasferito in Belgio.

Durante i mesi successivi ‘Peggy’ viene insignito della Military Medal per aver consegnato dei messaggi di primaria importanza strisciando dietro le linee nemiche e il suo tenente lo nomina per ricevere la Distinguished Conduct Medal sottolineando la sua ‘fedeltà al dovere’, ma qui la tensione e lo stress accumulati nel trascorrere due anni a uccidere e veder morire i suoi commilitoni trovano sfogo in un pessimo rapporto con i superiori, che lo porteranno addirittura a essere degradato (pur tra il sempreverde sostegno dei soldati semplici).

Il sei novembre 1917 il nostro eroe si guadagna la sua prima ‘Medal Bar’ durante la seconda battaglia di Passchendaele, l’atto finale della terza battaglia di Ypres (la cittadina belga si è ritrovata, suo malgrado, sulla cresta dell’onda durante il conflitto) in cui il Canadian Corps aveva ricevuto l’ordine di avanzata per catturare delle posizioni sopraelevate e asciutte in vista dell’arrivo dell’inverno. Il battaglione di Francis avanza dritto su Passchendaele, ma il comando perde quasi subito i contatti con il suo fianco est e nella campagna belga rivoltata dalla guerra era questione di un attimo che sbagliavi direzione e ti ritrovavi nella trincea sbagliata a mangiare crauti e bratwurst.

E piombo. Un sacco di piombo.

Quando il generale canadese Arthur Currie sta cominciando a diventare sudatino credendo di aver perso la sua intera ala destra nella terra di nessuno gli comunicano che uno scout -indovinate di chi si tratta?- si è messo alla testa degli uomini e li ha guidati in posizione aggirando le difese teutoniche. L’assalto è lanciato come da programma e la cittadina belga viene presa, prima che l’avanzata alleata si debba arrestare a causa del ‘piccolissimo’ contrattempo avvenuto sul fronte italiano, il cui esercito si ritrova completamente allo sbando dopo il disastro di Caporetto.

“Potremmo aver fatto un piccolo errore di valutazione”

La guerra, purtroppo per tutti, continua e il 30 agosto 1918 ‘Peggie’ si ritrova schiacciato in una trincea travolto da un assalto tedesco. Il problema principale è che l’intera compagnia di cui fa parte non era affatto preparata a sostenere una pressione del genere e le munizioni scarseggiano assai, paventando per tutti la scelta fra il morire e l’arrendersi.

‘Vento che Soffia’ ha però un’altra idea.

Strisciando nella Terra di Nessuno inizia a fare la spola fra le postazioni abbandonate e la sua trincea più e più volte, riuscendo infine a rifornire di proiettili i suoi compagni quel tanto che basta per tenere la posizione e respingere il contrattacco crucco.

L’azione gli vale la sua seconda Medal Bar, decorazione che solo altri 38 canadesi (ancora vivi) potevano permettersi di sfoggiare tornando a casa.


La guerra che sembrava non dover finire mai termina nel novembre del ’18 e il nostro protagonista viene rimandato a casa.

Ha servito consecutivamente per quasi l’intero periodo del conflitto e usando un fucile bolt action calibro .303 (e la protezione dei suoi antenati, che attrae con una sacca di talismani legata intorno al collo) è arrivato all’impressionante cifra di TRECENTOSETTANTOTTO uccisioni confermate e la cattura di altri TRECENTO prigionieri.


Mi sono concentrato a parlare unicamente delle sue doti di scout di proposito, la conta delle sue capacità da cecchino è quasi irrealistica.

Prima di tornare alla vita civile viene ricoperto di medaglie (fra le altre la British War Medal, la Victory Medal e la 1914-15 Star) e promosso al rango di sergente maggiore.

La storia potrebbe terminare qui? Ma neanche per il cappero.

Tornato in Canada presta ancora servizio sotto i Northern Pioneers ma nel febbraio del 1921 viene richiamato a Shawanaga perchè la tribù di Parry Island Band ha deciso di eleggerlo come guida, come avvenne per suo padre e suo nonno prima di lui. Dopo aver ottenuto la carica Francis dimostra però di aver compreso molto poco negli anni della guerra su quanto cazzate come la razza siano inutilmente divisive -ma dopotutto nemmeno Hitler ci è arrivato-.

Scrive una lettera ai vari capiclan in cui suggerisce nemmeno troppo sottilmente di fare espellere dalla riserva chi non sia un ‘purosangue’, causando uno scisma interno alla riserva, le simpatie della frangia più intransigente e le inimicizie con chi vorrebbe invece una convivenza più pacifica.

John Daly, l’agente della DIA (Department of Indian Affairs) indica in più di un’occasione come molti dei soldati nativi che sono tornati dal fronte si siano ritrovati in posizioni chiave all’interno dell’attivismo politico e uno di quelli con più seguito (perciò pericoloso) era proprio Pegahmagabow, che spingeva per liberare la sua gente dalla schiavitù dei bianchi, con le armi se necessario.

Questione complicatissima comunque la si guardi, poichè Francis (insieme a tutto il suo popolo) ha certamente ragione da vendere -DECISAMENTE MENO sul razzismo verso i ‘mezzosangue’-, ma nel 1920 una guerra contro il Canada avrebbe portato semplicemente ad altri, inutili, morti.

Fra fasi alterne il nome di Vento che Soffia rimase uno dei più importanti dell’intera First Nations (anche se gli altri capitribù lo bollarono come agitatore e lo rimossero per lunghi periodi dalla sua carica) e nel 1943 venne insignito del titolo di Capo Supremo del Governo Indipendente Nativo, carica che mantenne fino al 1952, anno della sua morte.

Francis lascia dietro di sè sei figli, una riserva affranta, un posto d’onore nella Indian Hall of Fame al Woodland Center di Brantford, una sequela di libri sulla sua vita, una statua di bronzo splendida eretta nel 2016 nella Georgian Bay, un mucchio di medaglie, TRECENTOSETTANTOTTO cadaveri germanici e sopratutto “A Ghost In the Trenches”, una canzone power metal dei Sabaton dedicata a lui.

Nessuno mi dedicherà mai una canzone power metal.

Sono triste.

]]>
https://www.inutile-erudizione.it/francis-pegahmagabow/feed/ 0
Francesco Baracca https://www.inutile-erudizione.it/francesco-baracca/ https://www.inutile-erudizione.it/francesco-baracca/#respond Wed, 10 Jul 2019 18:18:54 +0000 https://www.inutile-erudizione.it/?p=2484 L’Italia è un paese pieno di contraddizioni.

Abbiamo alle spalle varie culture millenarie che si sono avvicendate sul nostro territorio eppure siamo una nazione relativamente giovane, con 158 anni appena di ‘unità’.

Durante la nostra storia -così come oggi- siamo emigrati a frotte in tutto il globo -sfido chiunque a non avere almeno un amico o un parente alla lontana disperso in qualche angolo di mondo- ma siamo terrorizzati dall’immigrazione degli altri.

Per la nostra posizione all’interno del Mediterraneo siamo entrati continuamente in contatto con popoli e tradizioni diverse dalla nostra ma oggi ci spaventa tutto quello che è minimamente differente dal trittico: pizza/campionato/Barbara d’Urso.

Passiamo il tempo a lamentarci dello stato dei nostri servizi pubblici e in contemporanea il nostro tasso d’evasione fiscale è alle stelle.

Siamo questo popolo qui.
Quello della botte piena e la moglie ubriaca.

Faccio notare l’ironia del voler fermare il degrado scrivendo sui muri.

In mezzo a tutto ciò una delle cose che mi manda più ai matti in assoluto è il fatto che la stragrande maggioranza di chi trascorre il suo tempo a strepitare della ‘difesa della cultura italica’ lo fa non possedendo alcuna memoria storica, senza il minimo senso critico e non conoscendo fatti o personaggi importanti per il nostro paese, il più delle volte smarrendo le sue sinapsi in cazzate senza senso come l’ultima edizione del Grande Fratello o le grandi rivelazioni di Pamela Prati su Frank Caltagirone.

Conosco gente che sarebbe capace di citarvi a memoria la formazione del Foggia Calcio del 1958 ma che non ha la più pallida idea di chi sia Sandro Pertini.

Il problema di fondo è che senza la memoria gli avvenimenti tendono a ripetersi, solitamente per mezzo di persone che hanno tutto l’interesse nel mantenere sul passato una nebbiosa cortina di confusione, così da poter più agevolmente raccontare cazzate e/o prendere per il culo il grande pubblico.

Fatti o riferimenti a Salvini realmente esistenti sono puramente casuali.

Tutto questo incipit è per ribadire che una delle motivazioni fondamentali che mi spinge a usare le ore della mia sempreverde insonnia continuando a scrivere qui sopra è un malcelato desiderio di poter contribuire anche solo in minima parte nel rimuovere le cazzate che ci vengono continuamente propinate giorno dopo giorno (dopo giorno).
Quello e la segreta speranza di non dover mai più pagare per ubriacarmi al bar una volta diventato ricco e famoso.

La storia di cui parlerò oggi riguarda un eroe tutto italiano, uno di quelli che non merita di cadere nell’oblio o di venire sostituito da figure eroiche d’importazione.
Gli americani hanno una vera e propria venerazione per i loro Top Gun -rappresentati nel cinema da quel tappo scientologista di Tom Cruise-, qui in Italia abbiamo avuto Baracca, anche se in pochi se ne ricordano…


Francesco Luigi Giuseppe Baracca nasce a Lugo (piccolo comune in provincia di Ravenna) il 9 maggio 1888 da una famiglia decisamente benestante, con in uso i vasti terreni gestiti dalla famiglia paterna miscelati al materno sangue blu spremuto dal ramo dei conti de Biancoli.

Dopo un’infanzia abbastanza tranquilla il nostro protagonista viene direzionato dal padre alla facoltà di legge, ma i suoi sogni sono ben altri e per avere la possibilità di realizzarli decide di sfruttare (come sovente accade in questi casi) l’intermediazione della madre che si mette di traverso nel talamo nuziale finché il marito non capitola e lascia alla fine il suo giovane virgulto libero di intraprendere la carriera militare.

Nel 1909 Francesco esce dall’accademia di Modena con il titolo di ‘sottotente dell’Arma di cavalleria’ e viene assegnato al secondo reggimento ‘Piemonte Reale’ di stanza a Roma, un distaccamento nato nel 1692 dalla volontà del duca Vittorio Amedeo II per unire diversi reparti di cavalleria pesante sotto un unico stendardo e trasformare i suoi membri in macchine di morte su zoccoli con l’unico obiettivo di travolgere e sconquassare le fila nemiche. Ad oggi il reggimento è inquadrato nella brigata alpina ‘Julia’ ed è divenuto uno squadrone di supporto logistico blindato.

Il duca.

 

Il reggimento, ieri (in carica dalla sinistra).

 

Il reggimento, oggi.

Quello che ci serve tenere bene a mente per il proseguio della storia è il loro stendardo: il motto ‘Venustus et Audax’ sulla parte inferiore contornato da nastri svolazzanti (in omaggio al valor guerriero) intorno a un grande scudo diviso in quattro aree distinte: lo stemma dei Savoia, fiamme trifide, croci argentate e UN PULEDRO ALLEGRO RAMPANTE -rimembratelo-.


Il nostro protagonista si sente perfettamente a suo agio nella vita militare, spicca per intelligenza e attitudine al comando oltre che per le sue doti di cavallerizzo (d’altronde ha avuto a che fare con gli equini sin da bambino) che lo portano a trionfare nel concorso ippico di Tor di Quinto.
In quel di Roma inizia finalmente ad avere una vita anche al di fuori della caserma e le prime ad accorgersene sono le frequentatrici dei salotti buoni della capitale che iniziano a notare questo bell’ufficiale alto, colto e dai modi raffinati mentre miete una strage di cuori di cui rimangono come prova alcune lettere appassionate di gentildonne innamorate.


Nel 1912 Baracca si ritrova in quel dell’aeroporto militare di Centocelle (costruito tre anni prima nello stesso luogo dove Wilbur Wright, l’inventore dell’areoplano, aveva dato dimostrazione del suo ‘Wright Flyer’ che raggiungeva la STRAORDINARIA quota di nove metri) a osservare rapito un’esercitazione di alcuni velivoli e decide in quel momento di abbandonare il reggimento di cavalleria per fare domanda nella neonata aereonautica.
Quando in aprile viene mandato a Bétheny, in Francia, per il corso di volo su un avanzatissimo Nieuport-Macchi Ni.10 (un biplano da caccia capace di raggiungere i 140 km/h e i 4000 metri) deve mentire per non far preoccupare l’adorata madre dicendole che va nel paese delle baguette per studiare la lingua.
A 24 anni si ritrova a usare la stessa scusa dei sedicenni che partono oggi per l’Erasmus con il segreto obiettivo di conoscere principalmente alcool e genitali stranieri -non necessariamente in quest’ordine-.

Il Wright Flyer, fatto di legno, tela e speranza di non precipitare al suolo da nove metri e che si guidava da sdraiati.

 

Nieuport-Macchi Ni.10, perlomeno potevi stare seduto mentre speravi di non andare giù.

In poco meno di tre mesi il nostro protagonista riesce a ottenere il brevetto n.1037 e si distingue sin da subito per le eccezionali capacità nel volo acrobatico che vengono subito notate dai caporioni del Battaglione Aviatori che arrivano a litigarselo a lungo fra la quinta e la sesta squadriglia.

Sullo sfondo intanto si addensano minacciose le nubi della Prima Guerra mondiale.

Baracca rientra in Italia nel luglio del 1915 e dopo qualche missione di ricognizione fra i ranghi dell’ottava squadriglia qualcuno nella catena di comando decide di affidargli un nuovo modello di Nieuport-Macchi, il ‘Bebè 11’, che surclassa nelle prestazioni il Ni.10.
Sono gli anni (nemmeno poi troppo lontani) in cui l’areonautica militare muove i suoi primi passi insanguinati all’interno dei conflitti e caccia come il Nieuport sono utilizzati perlopiù per valutare dall’alto forze e movimenti delle truppe nemiche e solo saltuariamente per ingaggiare dei duelli aerei che solitamente finiscono con un nulla di fatto poiché LE MITRAGLIATRICI SONO MONTATE SULL’ALA ALTA DEI BIPLANI E IL PILOTA DEVE CONTEMPORANEAMENTE: ALZARSI, MIRARE, SPARARE ED EVITARE CHE L’ARMA SI INCEPPI VIRANDO CON LA CLOCHE FRA LE COSCE, il tutto intorno mentre si toccano i 100 km/h a centinaia di metri dal suolo.

Immaginate la precisione.

Chi non ha questo problema sono i tedeschi alla guida dei Fokker M.5 che montano le prime mitragliatrici che fanno fuoco sincronizzandosi con l’elica, il che spiega anche perché sul campo di battaglia questi caccia si guadagnano presto il soprannome di ‘Flagelli’, almeno finché nel 1916 francesi e inglesi non si dotano dello stesso armamento.

Viel besser (molto meglio).

In questo bailamme di proiettili, eliche, corpi smembrati, bestemmie, cabrate assassine e piloti con una durata di vita media molto risicata, il 7 aprile del 1916 Francesco effettua IL PRIMO ABBATTIMENTO AEREO DELLA STORIA ITALIANA, sconfiggendo nei pressi di San Giovanni al Natisone (Friuli) un ricognitore austriaco dopo un estenuante inseguimento portando QUARANTACINQUE colpi a segno.


“È all’apparecchio che io miro, non all’uomo” diventa la frase con cui assurge agli onori delle cronache, insieme al fatto che mantiene una condotta cavalleresca d’altri tempi nei confronti dei nemici, evitando di uccidere i piloti e quando possibile andando da loro a stringergli la mano per congratularsi per il bel combattimento e arrivando in qualche caso a chiedere consigli su come migliorare il suo stile.

Fair play in guerra signori, quando oggi manca pure alle partite dei pulcini delle scuole calcio.

In poco meno di sei mesi ottiene cinque abbattimenti personali, sette vittorie individuali e altre tre in collaborazione con altri piloti. Viene decorato con tre medaglie d’argento, promosso capitano e nel 1917 gli viene affidato il comando della 91esima squadriglia (soprannominata subito ‘La squadriglia degli Assi’) e carta bianca sulla scelta dei suoi membri -fra gli altri Guido Keller, un tipo completamente matto che verrà ricordato dalla storia perché durante la presa di Fiume trascorre il tempo perennemente strafatto di cocaina appollaiato sugli alberi in compagnia di un’aquila addestrata, ma anche perché è un pilota della madonna-.

Keller, in una delle sue foto più sobrie.

La 91esima viene fornita dei nuovissimi Nieuport 17 ed è in questo periodo che prende piede anche fra le fila italiane l’abitudine di dipingere sugli aerei gli stemmi distintivi dei piloti. Dovete tenere conto che la radio sui biplani era ancora pura fantasia e non era infrequente che nel mezzo dell’azione il fuoco amico diventasse un serissimo problema (sia Baracca che Keller per poco non vennero abbattuti perchè scambiati per austriaci). Manfred Albrecht von Richthofen, il ‘Barone Rosso’ aveva optato per dipingere l’intero biplano di un rosso scarlatto, Baracca rimestando fra le sue origini militari tira fuori il cavallino rampante dello stendardo del suo vecchio reparto di cavalleria.


Tenetelo ancora a mente, ci servirà sul finale.

A capo della sua squadriglia diventa il pilota italiano con il maggior numero di abbattimenti all’attivo (diciannove nel 1917), viene promosso maggiore e diviene una figura chiave nella propaganda di guerra che ha un sacco bisogno di eroi per sollevare il morale delle truppe, costrette in trincee fangose, fredde e piene di pidocchi fra un inutile massacro e l’altro.

“Stiamo una favola raga, tranquilli.”

Uno SPADQuando alle due del mattino del 24 ottobre le stanche armate austro-ungariche si riorganizzano insieme alle truppe smobilitate dal fronte russo (che ha in quel momento problemi rivoluzionari più pressanti che partecipare alla guerra) e vengono rinforzate dall’aggiunta di addestratissimi tedeschi, le linee difensive italiane vengono sfondate come una teenager russa in una gangbang interracial e ha il via la tremenda disfatta di Caporetto che fa retrocedere un regio esercito italiano che pare ormai allo sbando fino alla linea del Piave.


Lo stato maggiore tenta di coprire come può le truppe in fuga, scagliandogli addosso tutto quello che gli è rimasto, Arditi addestrati nel karate e squadriglia di Baracca compresa.

I piloti della novantunesima (l’élite dell’elite dell’aviazione italiana, gente che solitamente aveva il compito di fare da scorta ai generali) vengono impiegati in missioni continue al limite del suicida. Partono, valutano le forze nemiche, combattono in volo in netta inferiorità numerica contro le tre squadriglie di temibili Jastas tedeschi che sorvolano imperterrite lo spazio aereo, mitragliano con virate impossibili le truppe a terra, i carri di rifornimento e l’artiglieria tentando di rallentare i nemici come possono, tornano al campo di volo e se per qualche astrusa ragione sono riusciti a sopravvivere senza fondere il motore del biplano, possono bere un caffè prima di dover ripartire per una nuova missione.


Baracca a bordo del nuovissimo SPAD S. XIII (uno dei migliori biplani dell’intero conflitto) arriva in questi giorni difficili all’impressionante traguardo di TRENTA vittorie, prima che qualcuno si renda conto di quanto sia necessario farlo riposare un attimo prima di rischiare di ritrovarselo ad abbattere aerei nemici a cazzotti e bestemmie.

Uno SPAD S. XIII.

Il 6 novembre, mentre siamo ancora in piena ritirata verso il Piave, il nostro protagonista torna in azione talmente incazzato che abbatte a sputi Rudolf Szepessy-Sokolln che dall’alto delle sue cinque vittorie precipita sul terreno di Fossalta di Portogruaro (Venezia). La vittoria vale a Francesco una medaglia d’oro al valore e una riassegnazione momentanea lontano dalla prima linea che si stava andando a riorganizzare, per quanto a fatica.

Il 15 giugno del 1918 porta i suoi abbattimenti confermati a trentaquattro (su sessantatre scontri aerei) e quattro giorni dopo si ritrova a fare base al campo di volo di Quinto di Treviso. Qui decide di utilizzare uno SPAD S. VII (date le condizioni disastrose in cui versa il suo S. XIII) per la quarta missione della giornata, portandosi dietro come gregario il nuovo arrivato, l’inesperto Franco Osnago.

Dopo aver effettuato uno dei tanti mitragliamenti radenti sul colle del Montello (Treviso), Osnago ha solo il tempo di vedere lo SPAD di Baracca precipitare prima di doversi disimpegnare per i proiettili che piovono da tutte le parti. Quando torna a Quinto di Treviso e racconta trafelato cos’è successo l’intera 91esima squadriglia si alza in volo alla ricerca del suo comandante.


Il cadavere del più grande pilota dell’aviazione italiana viene ritrovato il 23 giugno da Osnago stesso alle pendici del Montello, in località Busa delle Rane, a fianco dei resti del suo velivolo. Il corpo presenta ustioni in più punti e ha una ferita profonda nell’incavo dell’occhio destro.

Il monumento funebre dedicato a Baracca, a Montello.

Per anni si è speculato su chi o su cosa abbia causato la fine del nostro protagonista (colpo di cecchino da terra, malfunzionamento del motore, mitragliatrice di bordo esplosa, suicidio con la pistola d’ordinanza per evitare di morire per le ustioni) ma la realtà è che con tutta probabilità è stato abbattuto dal biplano austriaco pilotato da Max Kauer e Arnold Barwig che (come riportano i loro rapporti, sempre ferocemente ignorati dalla propaganda italiana) sono giunti non visti da sopra le nuvole hanno avuto così il tempo necessario di avvicinarsi quel tanto che basta per centrarlo con le prime due raffiche.

Il 26 giugno a Quinto di Treviso le autorità civili, militari e un commosso Gabriele d’Annunzio (suo grande estimatore) tengono un sentito elogio funebre prima di seppellire i suoi resti in una cappella a Lugo.


Nel 1923 la madre di Baracca incontra un misconosciuto imprenditore, tale Enzo Ferrari, e gli consegna il simbolo distintivo del figlio dicendogli: “Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna”.
Cosa che in effetti avvenne.


Forse meno noto è il fatto che anche la Ducati utilizzò dal 1956 al 1961 lo stesso marchio, in questo caso perché il progettista capo Fabio Taglioni proveniva anche lui da Lugo.

Io lo avevo detto di tenerlo a mente, il cavallino rampante.

Chiudo con le motivazioni alla sua medaglia d’oro al valor militare:
“Primo pilota da caccia in Italia, campione indiscusso di abilità e di coraggio, sublime affermazione delle virtù italiane di slancio e di audacia, temprato in sessantatré combattimenti, ha già abbattuto trenta velivoli nemici, undici dei quali durante le più recenti operazioni. Negli ultimi scontri, tornò due volte col proprio apparecchio colpito e danneggiato da proiettili di mitragliatrici.”

Quando sentite qualcuno che sviolina i Top Gun statunitensi da oggi siete autorizzati a urlargli in faccia: “SI’ OK MA VUOI METTERE CON BARACCA?” mentre lasciate la stanza.


 

 

 

]]>
https://www.inutile-erudizione.it/francesco-baracca/feed/ 0
Herbert Charles Orslow Plumer https://www.inutile-erudizione.it/herbert-charles-orslow-plumer/ https://www.inutile-erudizione.it/herbert-charles-orslow-plumer/#comments Thu, 03 Jan 2019 18:40:33 +0000 https://www.inutile-erudizione.it/?p=2076 E’ abbastanza lampante: la guerra è uno dei motori del genere umano.
Le lotte armate, ci piaccia o meno, sono esistite da che esiste l’uomo e sono sempre state accompagnate da un progresso scientifico enorme, da invenzioni divenute poi fondamentali nella società civile e da strumenti sempre più raffinati e potenti che ci hanno permesso di ucciderci in maniera sempre più efficace.
Si può dire che in un certo qual modo sono i conflitti a farci progredire come umanità, con tutto ciò che ne consegue.

La storia di oggi vuole rispondere a un semplicissimo quesito: qual è la più grande esplosione causata artificialmente prima dello scoppio della bomba atomica?


Herbert nasce a Torquay, nel sud dell’Inghilterra, nel 1857.
Dopo un’infanzia relativamente tranquilla viene rimbalzato dalla famiglia abbiente da un prestigioso collegio militare all’altro fino a uscire diplomato nel 1876 alla Royal Military Academy di Sandhurst con il rango di ufficiale all’interno del reggimento di York e Lancaster. Per i successivi diciassette anni (un periodo inusualmente lungo) decide di servire come aiutante in Sudan sotto il comando di Sir Gerald Graham, venendo segnalato più volte per l’ottimo lavoro svolto.

Nel 1896 viene trasferito in Sudafrica, dove i piani alti rimangono piacevolmente colpiti dalla sua idea di creare un corpo di fucilieri a cavallo di cui possono testare l’efficacia allo scoppio della ‘Seconda guerra di Matabele’, un conflitto che vede contrapporsi l’impero britannico e il popolo nativo dello Zimbabwe, gli Ndebele, che -anche giustamente- erano abbastanza stufi di dover sottostare all’autorità del popolo del cheddar e approfittarono di un momento di carenza di truppe armate nella regione per dare inizio ad una rivolta, confidando di poterla trasformare in rivoluzione.

Decisamente più organizzati dei gilet gialli.

L’unica cosa male calcolata fu l’entità rinforzi nemici che in breve tempo sciamarono nel paese da tutte le direzioni.
Per Plumer ed il suo contingente fu un grande successo.
Un po’ meno per i nativi che vennero sistematicamente massacrati, ma di quello in pieno colonialismo -e poi nemmeno oggi- non frega niente a nessuno.
Quello che colpisce molti invece è la figura di quest’abile comandante vittorioso che gli anni successivi vedranno impegnato in una continua scalata alla gerarchia militare.

1915: prima guerra mondiale.
Il generale britannico Douglas Haig, un uomo amichevolmente soprannominato dai suoi stessi sottoposti ‘macellaio’ per il vezzo che aveva di emettere ordini che causavano ogni volta migliaia di morti all’urlo di: “la mitragliatrice mai rimpiazzerà il cavallo come strumento di guerra!” sta scorrendo il dito sulla mappa del fronte di battaglia, provocando nei fieri soldati del re una stretta fortissima all’ano.

Cavalleria intensifrizz.

Haig accarezza l’idea di uno sbarco in forze nelle Fiandre occupate.
Il piano prevede enormi piattaforme galleggianti con cui trasportare intere divisioni per arrivare all’obiettivo di conquistare la fascia costiera nei dintorni di Middlekerke per poi spostarsi ad Ypres e consolidare una testa di ponte.
Un problema: l’altura di Messines, da cui i tedeschi trincerati in forze controllano agevolmente l’intera zona non aspettando altro che un tentativo di avanzata mentre si fregano le manine crucche sulla loro artiglieria.
Al ‘macellaio’ serve un uomo benvoluto dalla truppa e che abbia già dimostrato le sue doti di comando, qualcuno gli fa il nome di Plumer, il resto è abbastanza scontato.
Herbert viene messo al comando di dodici divisioni, con il compito dichiarato di riprendersi Messines.

 

Fosse facile.


Il nostro eroe, a differenza di altri, è uno di quei comandanti che ha a cuore la vita dei suoi uomini, odia il preconcetto diffuso che basti mandare a schiantare contro le difese nemiche ondate su ondate di corpi per vincere la guerra e più di tutto gli sta sul gozzo chi lo invita ad usare i suoi contingenti di cavalleria come aprifila per la carne da cannone che sarebbe seguita a piedi.
Messines è arroccata dietro una moltitudine di linee di trincea, mitragliatrici, cecchini e valanghe di filo spinato.
In particolar modo appare evidente che puntare ad attaccare il saliente (una sorta di sacca nello schieramento avversario creato apposta per massacrare chi prova ad occuparlo) di Wytschaete, sarebbe stato un inferno da cui in pochissimi sarebbero usciti vivi.


“Signore abbiamo stimato una perdita complessiva pari a tutte le nostre dodici divisioni e anche se per un qualche miracolo riuscissimo a penetrare le loro difese reggeremmo un paio di assalti, poi si riprenderebbero subito le postazioni e saremmo punto e a capo”
“No, così non va affatto bene…ci deve essere un altro modo. Non ho intenzione di sacrificare migliaia di vite per niente!”
“Signore, comunicazioni dall’alto comando! La situazione a Verdun e nella Somme è di primaria importanza. Ci ordinano di tenere la posizione e attendere nuove comunicazioni per l’avanzata.”
“Abbiamo del tempo quindi. Chieda loro se Messines la vogliono intera o meno.
“Signore?”
“Se non possiamo prenderci questo fottuto monte lo cancelleremo dalla faccia della terra!”

Il piano degli inglesi sulla carta è semplice: scavare delle gallerie sotto alle difese tedesche, riempirle di esplosivo e godersi i botti da lontano sorseggiando un buon tè.

L’esecuzione presentava però alcuni problemi:

– Il terreno era un incubo.

Nella zona tra falde sotterranee e infiltrazioni varie una qualsivoglia galleria sarebbe durata quanto un misofobico in un ospedale da campo. Plumer ovvia al problema facendosi spedire da Londra due geologi con i controcazzi che individuarono in prondità uno strato d’argilla sotto il quale si sarebbe potuto scavare in relativa sicurezza.
L’unico problema era che si parlava di PARECCHIO in profondità (nell’ordine dei quaranta metri per almeno cinque chilometri di lunghezza). Ci sarebbe stato da faticare.

– la strategia di scavare dei tunnel sotto le trincee non era proprio una novità a questo punto della prima guerra mondiale.
I tedeschi si aspettavano una mossa simile e incominciarono anche loro a sforacchiare il terreno per incrociare i tunnel inglesi. Per tutto il periodo di preparazione alla battaglia venne creata una rete di scavi più vicini alla superficie per attirare le attenzioni tedesche e mascherare i tunnel focali nella strategia. Funzionò.
I genieri dei rispettivi schieramenti si incontrarono sottoterra in diverse occasioni, scannandosi in corpo a corpo e facendo saltare le gallerie avversarie ma nessuno dei difensori ebbe nemmeno il sentore di cosa stava per accadere, se non quando era ormai troppo tardi.


Nel giugno del 1917, dopo che anche la seconda battaglia dell’Aisne giunse ad uno stallo di trincee, Herbert riceve l’ordine di procedere verso Ypres togliendosi di torno quel monte maledetto.
Lo prende in parola.

Ventidue enormi mine di dimensioni variabili per un totale di QUATTROCENTOCINQUANTACINQUE TONNELLATE di esplosivo Ammonal (composto da nitrato di ammonio, polvere di alluminio e polvere di carbone) vengono collocate nelle gallerie in profondità che per oltre un anno i genieri si sono adoperati a costruire.
La notte prima dell’inizio dell’offensiva il generale Plumer, al tavolo di guerra con gli ufficial, sentenzia: “Gentlemen, we may not make history tomorrow, but, we shall certainly change the geography”.


Il 21 maggio inizia l’offensiva. L’artiglieria britannica martella imperterrita per diversi giorni le postazioni difensive ed entrambi gli schieramenti fanno levare in volo i neonati caccia per abbattere i palloni aerostatici d’osservazione che hanno il compito di riportare i rispettivi spostamenti di truppe, con il risultato che a terra, in aria e ovunque è un susseguirsi di esplosioni e morti.
E’ un inferno.
E’ la guerra.
Il 7 giugno viene dato l’ordine di avanzata da terra e lo spettacolo che si trovarono davanti i soldati della prima ondata è ben descritto da Erich Maria Remarque, scrittore tedesco presente dall’altra parte della barricata:


“Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio; vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via i due piedi e che inciampano sui moncherini scheggiati, fino alla prossima buca; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro i ginocchi fracassati; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro le budella che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta coi denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita se ne va a goccia a goccia. Ma quel pezzetto di terra sconvolta sul quale stiamo viene mantenuto contro le prevalenti forze nemiche: poche centinaia di metri soltanto si dovettero cedere. E per ogni metro c’è un morto”

Alle 03:10 viene dato il segnale per l’esplosione che avrebbe aperto la via alla seconda ondata di fanteria inglese.
Due mine non detonano per malfunzionamenti, una viene disinnescata dai genieri tedeschi ma il resto delle quattrocento tonnellate detona come programmato.
L’esplosione immane fu udita distintamente anche da Londra e Dublino.
Una colonna di fuoco erompe dal terreno illuminando a giorno la notte, devastando il saliente, l’intero monte e disintegrando in un attimo l’intera 3a divisione bavarese, diecimila uomini che un attimo erano lì e l’attimo dopo sparpagliati nell’arco di diversi chilometri.
Il botto più grande causato dall’uomo fino a quel momento.

Uno dei piccolissimi crateri provocati.

Appena gli stessi inglesi si riprendono, spianano ciò che resta delle difese con colpi d’artiglieria caricati a gas (la causa maggiore di perdite inglesi nella battaglia, dato l’assembramento di truppe ed il tiro non proprio impeccabile) e caricano a testa bassa nelle trincee.
Dopo neanche tre ore di scontro i tedeschi capiscono la mala parata e si ritirano lasciando dietro di sè 7000 prigionieri, 75 cannoni, 95 mortai e 300 mitragliatrici.
Plumer viene osannato come un eroe, la battaglia è vinta e tutti gli obiettivi prefissati raggiunti.
Rimane solo un problema.
Due mine risultano inesplose, i tunnel dove sono state collocate sono collassati e il paesaggio in superficie è talmente cambiato che è diventato pressochè impossibile capirne la posizione.
“Eh, vabbè, se non sono esplose fino adesso”
“Massi’ non esploderanno mica da sole”


Estate 1955: campagna belga.
Le nuvole sono basse e nell’aria c’è quel buon odore di ozono che contraddistingue un temporale estivo.
È tutto molto bucolico e tranquillo, su una collinetta una mucca rumina tranquillamente menBOOOOOOOOOOOOM!
Niente più mucca.
Niente più collina.
Niente più tranquillità.
Al loro posto un cratere di sessanta metri e profondo venti.

Ad oggi rimane ancora una mina inesplosa vecchia di cent’anni, sepolta sotto circa venti metri di terra e caricata con diciotto tonnellate di Ammonal.
Doveste capitare nei dintorni, io un pensierino a lei ed al generale Plumer lo farei.

Mine, potenza e crateri.
Gentilmente offerti da Wikipedia.

 

]]>
https://www.inutile-erudizione.it/herbert-charles-orslow-plumer/feed/ 2