Harukichi Shimoi

Adoro il Giappone.
Dei miei trent’anni ne ho trascorsi almeno venticinque ad assorbirne scampoli di storia e cultura da manga, anime, videogiochi, serie tv, libri, cibo e pornografia tentacolare.

Un’idea che arriva da lontano.

Il mio piano segreto per la conquista del Sol Levante consta di un viaggio aereo di sola andata, seguito da una contorta fuga dalla polizia all’interno di Aokigahara (la foresta alla base nord-occidentale del monte Fuji chiamata anche ‘Jukai’ o ‘Mare di Alberi) dove sopravvivrò cibandomi dei cadaveri dei suicidi che lo affollano evitando cosí il rimpatrio finchè mi sarà possibile.
NOTA BENE: queste parole sono state scritte SETTIMANE PRIMA che scoppiasse il casino dello youtuber Logan Paul, del suo cappello verde e del suo filmato in cui sberleffa un corpo a penzoloni, in ogni caso il mio piano sono ANNI che è in elaborazione e le decine di persone a cui continuo a dirlo continuamente possono confermarlo-.


Anni fa ho appreso che Palazzo Silva a Domodossola -per chi non fosse della zona è la struttura che più si avvicina a somigliare ad un museo in queste fredde terre abitate da beoni ciondolanti, di cui faccio mestamente parte- conserva all’interno una rara armatura da samurai dell’800 e da allora il mio sogno proibito è diventato quello di entrare di soppiatto ed appropiarmene come un novello Lupin. Mi sono altresì domandato molte volte quali fossero i rapporti fra Italia e Giappone negli anni in cui lo sport nazionale di tutta Europa era: ‘vivere male in una trincea e saltuariamente morire’, perchè se è vero che sono universalmente più noti gli avvenimenti e le relazioni fra le nazioni protagoniste della Seconda Guerra Mondiale è sul primo capitolo della saga che ci sono i dubbi più comuni, come in Harry Potter.


Fukuoka (福岡市) è il capoluogo dell’omonima prefettura situata sulla costa settentrionale dell’isola di Kyūshū.
La cittá è molto popolosa e viene ricordata principalmente per essere stata nel 1994 la tappa finale della carriera di Frank Sinatra, ma non è l’unico artista legato a questo luogo che merita la nostra attenzione.
Il 20 ottobre 1883 l’eroe di oggi viene registrato all’anagrafe come Harukichi Inoue ma ventiquattro anni più tardi, dopo essersi accasato, cambierà il cognome con quello della moglie, Shimoi, così come prevedono le consuetudini del sistema familiare dello ‘ie’ che vede inglobare i generi nelle famiglie prive di eredi maschi per costringerli a prendersi cura degli anziani.

Il nostro protagonista in abiti tradizionali.

Harukici è in possesso di uno spiccato talento per la poesia che non passa inosservato fra le cerchie letterarie che gravitano intorno alla rinomata Università Imperiale di Tokio ed è proprio qui che entra in contatto con uno dei più affermati intellettuali del paese, Bin Ueda. Sotto la sua guida Shimoi viene spinto ad interessarsi alla letteratura occidentale, in particolare a Dante Alighieri, con l’obiettivo di uscire dalla chiusura mentale tipicamente giapponese.
Pochi anni dopo il nostro protagonista è in viaggio per l’Italia per poter meglio comprendere gli scritti del Sommo poeta e la sua passione è talmente forte da garantirgli in breve tempo un posto da docente all’interno dell’Istituto Orientale di Napoli, la più antica ed importante scuola di studi orientalistici di tutto il continente europeo.

Ueda, con l’espressione di chi la sa lunga.

-STACCO N.1-
28 luglio 1914: i baffoni a punta dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este fremono dall’emozione quando Gavrilo Princip esplode dalla sua Browning 1910 il proiettile che perfora il suo nobile collo e lo fa divenire il casus belli per il bailamme della Prima Guerra Mondiale.
Una singola cartuccia calibro 7.65 fabbricata in Belgio farà complessivamente dai 15 ai 65 MILIONI di morti in quattro anni e mezzo circa, a seconda delle fonti utilizzate per la stima.
Dieci mesi dopo l’attentato di Sarajevo un grumo informe di interventisti, espansionisti e ‘patrioti’ guidano il Regno d’Italia ad uno dei più grandi massacri che la storia ricordi che fa lasciare sul campo il 3.48% della popolazione TOTALE del paese (1.240.000 mila morti fra militari e civili) dimostrando abbastanza chiaramente a tutti come la guerra sia una pratica schifosa e terribile, ben lontana dal conflitto glorioso, pulito, puro ed onorevole tanto sbandierato.

“Ohibò! Muorgo!”

-STACCO N.2-
Gabriele d’Annunzio, che personaggione!
Oltre ad essere universalmente ricordato per la leggenda che lo vuole intento a farsi asportare due costole per potersi autosuggere il pene (soprannominato ‘catapulta perpetua’ o ‘monachino di ferro’), è anche famoso (oggi come allora) in tutti gli ambienti culturali come una delle più grandi icone europee del ventesimo secolo.
Il Vate è uno dei cavalli di razza degli interventisti che in quegli anni si infervorarono a suon di comizi a tema risorgimentale come una tredicenne ad un concerto di Justin Bieber ed è proprio uno di essi, tenutosi a Genova, che dá il via nel 1915 alla mobilitazione generale delle masse desiderose del conflitto, il cosidetto ‘Maggio Radioso’.


All’entrata in guerra dell’Italia un d’Annunzio cinquantaduenne si arruola come volontario nei rinomati ‘Lancieri di Novara’ (che in origine avevano il nome decisamente più fico di: ‘Dragoni di Piemonte’) che lo ringraziano, ma dopo aver visto la sua abilitá in combattimento gli consigliano di tornare a casa e avvicinare la testa allo scroto.
In ogni caso seguendo il suo esempio torme di intellettuali decidono di scambiare libri con fucili ed in parecchie trincee finiscono uomini che diventeranno in seguito dei pesi massimi della letteratura mondiale.

-STACCO N.3-
1917: sono passati due anni dall’entrata in guerra dell’Italia ed è già chiaro per tutti che il conflitto di trincea, composta in egual misura da un logorante immobilismo seguito da inutili massacri, è una colossale minchiata.
Diversi giovani ufficiali spingono per un cambio di tattica da effettuarsi il prima possibile ed in quest’ottica viene avviata la sperimentazione di un’unità d’assalto appositamente costituita presso la 48esima Divisione dell’ottavo corpo d’armata del Regio Esercito.
Sotto il comando del capitano Giuseppe Bassi nascono gli Arditi.

“Doveva pur cambiar qualcosa!”

Sviluppato come un corpo d’élite a sè stante, con un uniforme propria ed un addestramento differenziale in tutto e per tutto superiore al resto dell’esercito, deve però far fronte ad un problema tipicamente italiano: l’arretratezza dei mezzi.
Se le Stoßtrupp (‘truppe d’assalto’) tedesche vengono dotate del primo mitra operativo del mondo (l’MP18), fucili Mauser e pistole Luger P08 appositamente modificati per la guerra di trincea ed un sacco di altri gadget all’avanguardia, gli Arditi devono fare di necessità virtù ed andare alla carica con solamente un pugnale ed una ventina di granate ciascuno (i diffusissimi ‘petardi Thévenot’) e solo in rarissimi casi con le spalle coperte dal fuoco delle pistole mitragliatrici Villar Perosa, soprannominate in poco tempo ‘pernacchie’, che sono delle mitragliatrici leggere riconvertite per gli assalti ma scomode come solo un’arma che progettata per l’uso con un treppiede e uno scudo da ventisei chilogrammi può essere.

Germania.

 

Italia.

La tattica degli Arditi era semplice quanto efficace in un tipo di guerra immobilista: caricare a testa bassa infiltrandosi nei punti deboli delle difese nemiche ed occupare le posizioni spargendo panico e confusione fino all’arrivo dei rincalzi di fanteria.
Inutile dire che la vita media di un appartenente alle truppe d’assalto dura quanto quella di un afide in un allevamento di coccinelle, eppure i primi sei reparti si distinguono positivamente nella battaglia di Udine e durante la ritirata al Piave con il ruolo di estrema retrovia.

In fondo il soldato più pericoloso non è quello armato meglio, ma quello a cui non importa nulla di morire.

Alcuni appartenenti a questo reparto stupiscono nemici e alleati quando danno prova di conoscere approfonditamente alcune tecniche di combattimento corpo a corpo inconsuete ma tremendamente efficaci negli spazi ristretti delle trincee: conoscono il karate.
Chi gliel’ha insegnato? Shimoi.


Harukici si arruola nel Regio Esercito nel 1917 e da buon esponente di una famiglia di samurai ci mette poco a proporsi volontario per questo nuovo gruppo di combattenti. Non appena giunge voce a d’Annunzio (nel frattempo diventato un ottimo aviatore) che un letterato nipponico ha fatto domanda per diventare Ardito, il Vate (profondo conoscitore e ammiratore della cultura asiatica) sfrutta i suoi contatti per scrivere una missiva che deve essere suonata pressapoco cosi:

“Sono d’Annunzio
Ho il pene grande
Accattatevi il giapponese
Una risorsa per il Bel Paese
Trattatemi bene il ‘camerata samurai’
Eddai! Eddai! Eddai!”

“Potrei averla scritta molto meglio di così!”

Il 3 novembre 1918 il nostro protagonista è fra i primi ad entrare in una Trento liberata di fresco e tenendo fede al motivo per cui aveva attraversato mezzo mondo la sua prima azione è quella di porgere i suoi omaggi al monumento in memoria di Dante Alighieri.
Nel frattempo i contatti con il Vate si intensificano e fra i due nasce una di quelle virili e maschie amicizie fra letterati d’arme.

-STACCO N.4-
Fiume è una città di cinquantamila anime sita sull’Adriatico e il cui controllo era rimasto in bilico fra Italia e Regno d’Ungheria a partire da un censimento del 1910 che mostrava come più della metá della popolazione si ritenesse a tutti gli effetti italiana.
Dopo la fine del conflitto il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson è convinto che per mettere tutti d’accordo ai Savoia sarebbero dovuti bastare Trento e Trieste -che ancora oggi non sono felicissime della cosa- mentre la Dalmazia (promessa col ‘Patto di Londra’) e appunto Fiume andavano alla Jugoslavia; per sancirlo Woodrow chiede ed ottiene che a vigilare sulla città ci siano reparti di soldati provenienti da quattro nazioni diverse (Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti).

Gli ingredienti per un disastro ci sono tutti.


Il 29 giugno 1919 alcuni militari francesi fanno l’errore di strappare il tricolore appuntato sulle vesti di alcune donne fiumane e da qui parte un cazzo di delirio che si conclude con NOVE MORTI, DECINE DI FERITI, UNA SETTIMANA DI SCONTRI ININTERROTTI ed una lettera inviata a d’Annunzio dai comandanti di un reparto del Regio Esercito aquartieratosi appena fuori città:

«Sono i Granatieri di Sardegna che Vi parlano.
È Fiume che per le loro bocche vi parla.
Quando, nella notte del 25 agosto, i granatieri lasciarono Fiume, Voi, che pur ne sarete stato ragguagliato, non potete immaginare quale fremito di entusiasmo patriottico abbia invaso il cuore del popolo tutto di Fiume…
Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l’unità d’Italia: Fiume o morte! e manterremo, perché i granatieri hanno una fede sola e una parola sola. L’Italia non è compiuta.
In un ultimo sforzo la compiremo.”

Figurarsi, il Gabrielone nazionale non aspettava altro.

Il 12 settembre una colonna formata da volontari reduci provenienti da tutta Italia (composta in parte anche dagli stessi bersaglieri mandati dal governo Nitti per bloccare l’avanzata) superano il confine con gli Arditi in testa (tra cui ovviamente Shimoi) e prendono possesso della città quando inglesi e francesi decidono di ritirarsi all’urlo di: “col cazzo impanato e fritto che siamo scampati alle trincee della guerra per morire a Fiume in tempo di pace!”


D’Annunzio viene eletto a furor di popolo come capo in pectore e si ritrova subito a gestire la reazione di un Nitti che, per non perdere la faccia di fronte al mondo, fa consegnare un timido ultimatum dalle mani di un Badoglio che incute ben poco timore -qui non usa le bombe all’iprite per fare il gradasso come invece avverrà pochi anni dopo in Africa- ed in seguito taglia a Fiume ogni rifornimento, isolando civili e soldati dalla tanto agognata italica madrepatria.

Hakurici in questa occasione ricopre il delicatissimo ruolo di emissario diplomatico, poichè in virtù del suo passaporto giapponese gode di un’enorme libertà di movimento.
Per settimane fa avanti e indietro dall’Italia a Fiume spargendo il verbo del suo comandante che, gli va dato atto, non le manda a dire nemmemo a Mussolini, al tempo a capo dei ‘Fasci Italiani di combattimento’ e direttore de ‘Il Popolo d’Italia’:

«Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi e del popolo italiano.
Io ho rischiato tutto, ho fatto tutto, ho avuto tutto.
Sono padrone di Fiume, del territorio, d’una parte della linea d’armistizio, delle navi; e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me.
Nessuno può togliermi di qui.
Ho Fiume; tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.
E voi tremate di paura! Voi che vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale.
Qualunque altro paese -anche la Lapponia- avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi stete lì a cianciare, mentre noi lottiamo d’attimo in attimo, con un’energia che fa di quest’impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille.
Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi? Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi.
È un’impresa di regolari. E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette.
Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà. Svegliatevi! E vergognatevi anche.
Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il dominio del mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell’eroismo, dove sarà dolce morire ricevendo un ultimo sorso della sua acqua. Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse?
Bucate almeno la pancia che vi opprime, e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia. Su! Scuotetevi, pigri nell’eterna siesta! Io non dormo da sei notti; e la febbre mi divora.
Ma sto in piedi.
E domandate come, a chi m’ha visto.
Alalà»

-Mentre stavo scrivendo questa storia ho scoperto il proseguio dell’avventura di Fiume è stato descritto dal mai troppo lodato Nebo su http://thevision.com/cultura/dannunzio-fiume/ invito gli interessati a capitombolare lì perché è di sicuro più bravo di me a scrivere-

Contemporaneamente al casino fiumano D’Annunzio decide di occuparsi anche di un altro progetto che lo interessa moltissimo e coinvolge direttamente il nostro Shimoi.
Un volo aereo propagandistico Roma-Tokio.
Perché sì.
Il progetto (a cui Gabriele non poté partecipare per non abbandonare il suo ruolo di governatore) riceve anche il sostegno economico dello Stato Italiano. Da un lato l’impresa mostra l’avanzamento tecnologico dei velivoli italici e il coraggio e la preparazione dei suoi piloti, mentre dall’altro è un ottimo modo per distrarre d’Annunzio.
Arturo Ferrarin ed il motorista Gino Cappannini portano a compimento l’impresa partendo dall’aeroporto di Centocelle (insieme ad uno stormo di altri nove aerei, poi non pervenuti) il 14 febbraio 1920 ed atterrano in terra giapponese (dopo soverchie tappe) il 31 maggio.
Il biplano modello Ansaldo S.V.A. 9 utilizzato per l’impresa è ancora esposto al museo imperiale giapponese.

L’equipaggio alla partenza.

Arturo in kimono.

Shimoi decide al termine del 1920 di tornare in quel di Napoli per lanciarsi nell’editoria e fonda una rivista di letteratura giapponese chiamata Sakura.
Una rivista di letteratura giapponese in un paese dove il tasso di analfabetismo era -è- alle stelle.
Dopo cinque numeri Sakura chiude i battenti -più o meno come la maggioranza dei ristoranti di sushi all you can eat oggi-.

Da qui le luci della ribalta per lui si affievoliscono (insieme a quelle di d’Annunzio che convive non benissimo con un Mussolini al comando che vuole su di sè tutti i riflettori del palcoscenico) e la storia ce lo restituisce dopo alcuni sprazzi di conferenze in Giappone a sostegno del fascismo italiano solo nel 1934, anno in cui fa da interprete al viaggio in Italia di Jigorō Kanō, fondatore dello judo.

Un uomo che menava forte e aveva uno sguardo severo.

Nel secondo dopoguerra diventa anche un ottimo amico di Indro Montanelli a cui farà da guida per uno dei primi reportage sul Sol Levante. Anni prima che questo significasse Nadia Toffa delle Iene che urla in mezzo ad Akihabara che tutti i giapponesi sono dei pedofili perchè leggono i manga.

Altri tempi, altra gente.

Luca Porrello

Vivo in un bosco. Soffro di insonnia. La combatto scrivendo (e bevendo). E' partito tutto così. Se vi è piaciuto quello che avete letto cercate Personalità Buffe anche su Facebook.

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