Cayetano Santos Godino

Avete presente quando si parla di scaltri assassini che vengono beccati solo dopo mesi, anni, decenni di indagini a tutto tondo? Personaggi dalla mente criminale finissima, che tengono in scacco le forze dell’ordine che possono sperare di arrivare fino a loro solo seguendo delle tracce lasciate da un recondito desiderio di essere fermati…
Bene, guardate la foto qui sopra e dimenticatevene subito, perché oggi non parlerò di loro. Quest’oggi l’attenzione è tutta per uno dei killer più sconclusionati della storia: Cayetano Santos Godino, soprannominato per ovvie motivazioni “El Petiso Orejudo” (letteralmente: “il piccoletto orecchiuto”).

Il nostro eroe nasce a Buenos Aires nel 1896 da genitori emigrati da San Demetrio Corone, nella profonda Calabria, un piccolo centro urbano che ha avuto come unica attrattiva nella storia quello di essere stato per secoli luogo di commistione tra le culture calabro/greco/albanesi -vado per stereotipi ma sto immaginando quest’uomo con la catenazza d’oro al collo, il petto villoso in bella vista sporco di feta mischiata con la ‘nduja, mentre urla che spaca botilia-.
Il padre, tale Fiore Godino, così a naso rispecchia fedelmente la versione data dalla mia immaginazione dato che è un alcolizzato sifilitico che si diletta nella mai troppo abusata pratica di menare fortissimo i figli…avendone otto (sono gli anni in cui ne fai a decine nella speranza di farne arrivare almeno un paio all’età adulta) i bersagli non mancano, ma forse per le orecchie giganti il nostro Santos è quello che ne prende di più e con maggior frequenza.

Questo stile di vita fa emergere presto degli scompensi. Quando dico presto intendo che già a cinque anni è conosciuto nel quartiere perché si diverte a dar fuoco alle cose e a cacciare gatti ed uccellini per poi torturarli e mutilarli orrendamente.

Dato che per risolvere i problemi causati dalle sberle, schiaffoni più forti sono un metodo terapeutico che non funziona molto bene, ad OTTO ANNI riesce a introdursi nell’abitazione di un vicino, si porta via un bambino di 21 mesi e poi, penso per la curiosità di sapere cosa ci sia dentro, lo colpisce ripetutamente con una pietra finché non viene fermato da un poliziotto di ronda che non può far altro che portare Godino in caserma (considerata l’età dell’assassino le opzioni sono limitate) e riconsegnare una poltiglia sanguinolenta alla madre del piccolo.
A Cayetano il vizietto rimane e l’anno dopo, seguendo lo stesso modus operandi, uccide un altro neonato, anche qui senza grosse conseguenze.

A 12 anni, già con un ottimo palmares di omicidi sulle spalle, scopre le gioie della masturbazione.
Gli piace talmente tanto che la cosa diventa compulsiva ed unendo questo al quadro generale, decide di trascinare una bambina in un luogo isolato e dopo aver provato, inutilmente, a stuprarla (per quello che può stuprare un bambino di dodici anni) prima la strangola e poi la seppellisce viva.

I genitori, un attimo basiti da questo mostro in formato mignon, non sanno più cosa fare (d’altronde l’unico metodo educativo che conoscono sono i ceffoni) e pregano il questore di rinchiuderlo in prigione per un paio di mesi -più nella speranza di liberarsene che di riabilitarlo, sospetto-.
Il piano non riesce molto bene, quando Santos viene rilasciato prova ad affogare l’ennesimo bambino e BRUCIA LE PALPEBRE ad un altro neonato…la polizia ne ha un po’ pieno il cazzo e chiudendo un occhio -come l’ultima vittima dovrà fare per il resto della sua vita- sulla sua età lo rinchiude in carcere per i successivi tre anni.

Migliora? Eee insomma…
Nel gennaio del 1912 dà fuoco ad un magazzino, sgamato tipo subito si giustifica con un: “mi piace vedere i pompieri al lavoro!”.
A marzo incendia i vestiti di una bambina, che in seguito morirà per le ustioni.
Nel settembre dello stesso anno appicca le fiamme ad una stazione dei tram, si sfiora una strage, evitata solo per l’intervento tempestivo dei vigili del fuoco.

Nonostante venga tutte le volte beccato abbastanza facilmente, le autorità decidono di non procedere contro un ragazzino.
E si arriva a dicembre…

Jesualdo Giordano, dieci anni, sta giocando sulla porta di casa, finché non vede questo ragazzo mingherlino e con le orecchie a sventola che lo guarda fisso dall’altra parte della strada.

“Ciao, vuoi venire a giocare con me?”

Jesualdo fa l’errore più grande della sua breve vita e accetta.
Godino se lo porta in giro per un po’, gli compra delle caramelle, lo convince a seguirlo nel granaio di una fattoria isolata e qui prova a strozzarlo con la corda che usa come cintura.
La corda, fortunatamente -oppure no considerando come proseguono le cose- si spezza e Santos in memoria di quello che gli è stato insegnato a casa decide di pestarlo con un bastone fino a farlo svenire.
Poi gli viene un idea geniale: CHISSÀ COSA SUCCEDE SE GLI PIANTO UN CHIODO IN TESTA! Unico problema: non ha un chiodo.
Lascia Jesualdo legato e fa la strada a ritroso, incrociando due volte il padre della vittima che lo sta cercando preoccupato da ore.
In entrambe le occasioni il nostro protagonista gli dice che non ha nessuna idea di chi sia suo figlio…la seconda volta ha però in tasca un chiodo.
Con la quinta vittima sulle spalle, Cayetano torna fischiettando a casa, proprio mentre il signor Giordano trova il cadavere del figlio in una pozza di sangue e inizia ad urlare.

Nessuno sospetta di Godino a questo punto della storia, i due non si conoscevano e la polizia argentina ha altro a cui pensare, sembra un delitto perfetto e per una volta pare che l’abbia fatta franca.
Pare.
Alle 8 della stessa sera, durante la veglia funebre della sua ultima vittima, Santos arriva fino alla bara aperta ed innocentemente, ma un po’ indispettito, chiede al padre di Jesualdo: “Mi potete ridare il mio chiodo?”

La polizia lo arresta e all’urlo di “mobbasta!” lo condanna al manicomio criminale.

Appena arrivato alla struttura, giusto per presentarsi bene, tenta di uccidere altri tre pazienti.
Anche il giudice è stufo di ritrovarselo fra le balle e decide di condannarlo all’ergastolo da scontarsi però in un penitenziario (i manicomi, secondo il codice penale argentino del periodo erano riservati solo ai soggetti incapaci DEL TUTTO di intendere e di volere).
Dopo aver girato varie prigioni nel ’33 giunge nella sua ultima dimora, dove si distinguerà uccidendo il gattino-mascotte dei detenuti e ricevendo in cambio per questo una valanga di botte da tipo tutta la prigione per gli anni a venire.

Nel ’44, dopo 9 anni di ‘strane’ malattie -si sospetta lo avvelenassero di proposito- muoremale all’interno del carcere.

Presenze al funerale: una sorella, il prete (abbastanza di fretta).

Luca Porrello

Vivo in un bosco. Soffro di insonnia. La combatto scrivendo (e bevendo). E' partito tutto così. Se vi è piaciuto quello che avete letto cercate Personalità Buffe anche su Facebook.

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