Igor Alekseevič Djatlov

AVVISO: questa storia tratta di fatti inspiegabili per alcuni e spiegabilissimi per altri, non voglio tentare di blandirvi come un Adam Kadmon qualsiasi per cui mi limiterò a esporre i fatti (in alcune parti romanzandoli per renderli più appetibili) insieme a qualche osservazione personale.
Se credete agli UFO, ai rettiliani o alle scie chimiche è comunque troppo tardi per voi e anche a fronte di spiegazioni razionali sarà difficile farvi ragionare.
Facciamo che siete nel giusto così evitate di lasciare commenti beceri che poi devo insultarvi perdendo il tipico aplomb che mi contraddistingue.

*risateregistrate*

Istituto Politecnico degli Urali, 1959: un gruppo di dieci amici arriva fino in fondo al corso di studi senza perdersi per strada -come è invece avvenuto al sottoscritto- e decide di far ciò che tipicamente si fa in URSS al conseguimento della laurea. No, non spaccarsi di vodka per poi andare a combattere contro un orso a mani nude (o non solo almeno) ma PARTIRE PER UN ESCURSIONE ATTRAVERSO GLI URALI SETTENTRIONALI CON GLI SCI DI FONDO, IN PIENO INVERNO.

 

Perché? Perché fa ridere.

Il gruppo, composto da otto uomini e due donne -dimostrandoci di aver capito molto poco di come funzionano le cose in un viaggio postlaurea- è capitanato dal nostro Igor e ha come obiettivo la cima del monte Ortoten in un percorso scelto appositamente per la sua difficoltà che in quella stagione raggiunge la categoria tre.
In una scala che va da uno a tre.

 

Perché? Perché fa ridere.

Va detto che tutti gli appartenenti alla spedizione hanno una discreta esperienza nelle escursioni in alta montagna con gli sci. Non sono i tipici milanesi in espadrillas che dalle mie parti iniziano camminate in quota che poi terminano con qualcuno che telefona disperato all’elisoccorso quando si stortano una caviglia -true story- tenetelo a mente e proseguiamo.

E nemmeno arrivano su un ghiacciaio vestendo un chiodo di finta pelle per qualche credito extra in università come il sottoscritto.

I dieci arrivano in treno il 25 gennaio a Idvel’, una piccola città della Russia siberiana nordoccidentale dove il passatempo preferito è quello di prendere a badilate il terreno ghiacciato.
In quest’oasi di civiltà riescono a trovare un passaggio in camion fino a Vižaj, l’ultimo insediamento abitato prima del grande nulla della steppa da dove il gruppo parte a piedi, il 27, in direzione dell’Ortoten. Già il mattino successivo uno di loro, Jurij Judin, è costretto a tornare indietro perché si sente troppo male per proseguire. Sul momento è molto scontento di dover rinunciare al viaggio con i suoi amici ma avrà poi modo di cambiare idea in seguito.
Giorni passati dall’inizio dell’escursione: uno. Appartenenti alla spedizione persi: uno.
Non proprio il migliore degli inizi.

“Al netto di tutto, appostissimo così!”

Il 31 gennaio, dopo quattro giorni di steppa a -30°, il gruppo arriva sul bordo dell’altipiano prefissato e decide di depositare cibo e attrezzature in eccesso in una sorta di campo base da cui poi secondo i piani sarebbero ripartiti finita la scalata per tornare alla civiltà. Il giorno dopo iniziano a percorrere il passo montano (successivamente soprannominato ‘passo Djatlov’) ma vengono sorpresi nel tragitto da una tempesta di neve molto violenta che azzera la visibilità mandandoli fuori strada.
Si ritrovano più ad ovest di quanto dovrebbero sulla via verso la cima di una montagna, la Cholatčachl che nel dialetto delle tribù del luogo significa molto allegramente ‘Montagna dei Morti’.
Quando l’errore diventa evidente a tutti, in barba alla superstizione viene deciso di piantare una tenda e aspettare il miglioramento delle condizioni atmosferiche…

-STACCO-

…dopo una ventina di giorni senza notizie (un lasso di tempo più che adeguato considerando il tipo di escursione, la zona ed il peggioramento del clima) i parenti dei ragazzi cominciano giustamente ad allarmarsi e decidono di contattare la polizia che coordinandosi con l’esercito dà inizio alle ricerche mobilitando uomini, elicotteri ed aeroplani.

-INIZIO DELLA PARTE MISTERIOSA-

Il 26 febbraio viene ritrovata la tenda sul Cholatčachl con all’interno i diari e le macchine fotografiche che hanno permesso la ricostruzione del loro percorso (tutto quello detto fin qui in pratica), la tenda è però molto danneggiata, con segni di lacerazione DALL’INTERNO.


Dal bivacco partono una serie di impronte che i soccorritori seguono in direzione dei boschi vicini fino ai piedi di un cedro dove ritrovano i resti di un fuoco e i cadaveri di Jurii Krivoniščenko e Jurij Dorošenko, entrambi scalzi e in mutande. Nell’area tra il cedro e la tenda vengono rinvenuti nei giorni successivi altri tre cadaveri, quelli del nostro Igor, di Zina Kolmogorova e di Rustem Slobodin.
Gli ultimi quattro saltano fuori solo due mesi dopo, sepolti sotto metri e metri di neve in fondo ad una gola scavata da un torrente poco distante dal cedro di riferimento.





Cos’è successo? -a parte ovviamente il fatto che uscire scalzi e in mutande nella steppa russa in inverno è un filino deleterio per la salute-
Per determinarlo viene fatta partire un inchiesta da cui si sono dipanate molteplici soluzioni -credo fra le altre cose per dubbie scelte di lessico da parte del medico legale- di cui di seguito riporto prima di tutto i fatti comprovati:

Sui cinque corpi ritrovati per primi le autopsie indicano che sono assenti ferite mortali, il che passa un attimo in secondo piano quando sei trenta gradi sottozero nella steppa e muori per ipotermia.

Per i cadaveri rinvenuti a maggio le cose si complicano perché mostrano segni di gravi fratture (cranio e cassa toracica) che come il medico legale si diverte a specificare “…per essere provocate richiedono una forza estremamente elevata, pari a quella di un incidente stradale”.
Se state pensando che è facile spiegarlo con una caduta nella gola non posso che trovarmi d’accordo, ma va detto che tutti i cadaveri non mostrano nessuna ferita esterna, sembrano piuttosto soggetti ad un enorme pressione ed in più la mancanza della lingua dell’ultima ragazza trovata lascia alquanto dubbiosi gli investigatori.

In un primo momento si tenta di dare la colpa delle morti alla tribù di indigeni Mansi presente sul territorio -dare la colpa alle minoranze, in mancanza di meglio, è un grande classico-.
I Mansi (o Voguli) sono un gruppo etnico presente in Russia dal primo millennio a.C. che potete immaginare per comodità come una via di mezzo tra gli Inuit e gli Indiani d’America.

“Hey babbuzzo! Ti piacciono i coni?”

Nella zona che ci interessa vivono di caccia, pesca e allevamento di renne, venerano i loro animali totemici e chiedono essenzialmente di essere lasciati in pace. Cosa che viene facile quando vivi in mezzo alla tundra con niente intorno, un po’ meno quando la Grande Madre Russia scopre che sotto il tuo culo ci sono immensi giacimenti di petrolio. I Mansi vengono inquadrati dunque nel ‘Circondario nazionale Ostiaco-Vogulo’ e col passare degli anni e dei pozzi petroliferi diventano una minoranza esigua nel loro stesso territorio (tipo i milanesi a Milano).

La loro presenza dà però ancora fastidio a qualcuno dato che i primi indagati diventano subito loro.
Vengono tirati in ballo per alcuni stralci rinvenuti nei diari dove i nostri escursionisti riportano che: “…sono molto superstiziosi e ci hanno intimato di andarcene dalla loro ‘montagna dei morti’ il più in fretta possibile; non dovrebbero esserci problemi ma credo che comunque ci sia qualcuno di loro che ci osserva da lontano da un paio di giorni”.

 

“Ma che ne vogliono sapere sti primitivi della loro montagna sacra?”


In effetti i Mansi non è che vanno d’accordissimo con un branco di neolaureati fondisti russi che hanno intenzione di dissacrare i loro luoghi sacri, ma negano di averli seguiti o di avere qualsiasi cosa a che fare con le loro morti -sono tentato di crederlo anche perchè la versione resta la stessa anche dopo interrogatori al limite della tortura-.
A scagionarli fortunatamente per loro arrivano anche investigatori decenti che fanno notare l’assenza di altre impronte intorno ai corpi e soprattutto che nessuno dei cadaveri riporta alcun segno di colluttazione, i Mansi possono tornare alle loro renne.

“Grazie eh, ben gentili.”

Ci si concentra dunque sul fatto che la maggioranza degli escursionisti -esperti, lo ricordo- sono stati ritrovati senza scarpe, seminudi o comunque non adeguatamente vestiti nonostante all’esterno della tenda imperversasse una temperatura che avrebbe fatto gelare le chiappe anche a un pinguino -potrebbero non avere usato PROPRIO queste esatte parole-.

Anche in questo caso si arriva a una spiegazione abbastanza semplice:
si tratta difatti di ‘undressing paradossale’, che non è una scusa del perché quando vi ubriacate tendete a denudarvi, bensì una condizione che colpisce circa nel 25% dei casi di morti per iportermia, in cui il passaggio da un ipotermia lieve ad una grave porta con sè uno stato di confusione e aggressività, facendo arrivare a strapparsi i vestiti di dosso percependo una falsa sensazione di calore superficiale che come potete immaginare accelera solamente la morte.

-Questo NON E’ undressing paradossale. E’ solo una scusa per mettere la faccia da orgasmo di Leslie Rose.-

Gli investigatori non hanno molte altre idee su cui lavorare e decidono di riassumere i fatti fin qui descritti in un fascicolo (introducendo come nuovo elemento un alto livello di radioattività riscontrato sui vestiti di alcuni di loro) e indicare come verdetto che il gruppo di escursionisti è morto “A CAUSA DI UN IRRESISTIBILE FORZA SCONOSCIUTA”, chiudendo l’inchiesta alla fine dell’anno per assenza di colpevoli e nascondendo (nella migliore tradizione URRS) il plico relativo dell’indagine in un cassetto da cui saltò fuori solo nel 1990.

Negli anni si sono susseguite diverse ipotesi più o meno realistiche per spiegare i fatti de ‘l’incidente del passo Djatlov’ che spaziano dai sempreverdi UFO (un altro gruppo di escursionisti accampato quella notte ad una 50ina di km dal Cholatčachl parlò di misteriose luci nel cielo) a prove balistiche segrete dell’esercito (che in effetti avvennero in quelle zone e in quel periodo), all’ingestione di droghe psicotrope a vendette di fantasmi Mansi.


La spiegazione che mi convince personalmente di più è quella data nel 2014 dall’americano Donnie Eichar che sostiene che il giorno della scomparsa il passo dove si sono accampati i ragazzi fu flagellato da una sorta di ‘tempesta perfetta’ che originò, aiutata dalla forma a cupola del Cholatčachl, dei mini tornado nei pressi dell’accampamento. Questi oltre a non essere esattamente il compagno migliore per un escursionista hanno anche lo spiacevole effetto secondario di generare infrasuoni non udibili dall’orecchio umano ma che hanno come conseguenza (comprovato da diversi esperimenti americani sulle cosidette ‘armi sonore’) quella di generare perdita di sonno, mancanza di respiro e un grandissimo panico.
Da qui all’immaginare che abbiano dato fuori di testa distruggendo da soli la tenda per poi scappare seminudi a -30° morendo a caso nella neve lo trovo abbastanza realistico.

E non lo dico solo perchè Eichar è decisamente fregno.
Non solo almeno.

Oppure potete pensare che siano stati i fantasmi di alieni Mansi.

Nota di fondo: da questa storia sono stati tratti una sequela di libri, qualche film e per non farsi mancare niente anche un videogame, di cui riporto il trailer qui sotto.

Luca Porrello

Vivo in un bosco. Soffro di insonnia. La combatto scrivendo (e bevendo). E' partito tutto così. Se vi è piaciuto quello che avete letto cercate Personalità Buffe anche su Facebook.

2 pensieri riguardo “Igor Alekseevič Djatlov

  • 26 Agosto 2020 in 4:39
    Permalink

    Per me ci sta tutto.. ma quello che proprio non mi torna nella spiegazione del 2014, com’è che ad una ragazza manca la lingua?

    Rispondi
    • 9 Settembre 2020 in 18:08
      Permalink

      Le spiegazione più probabile è che cadendo male se la sia staccata da sola con i denti.

      Ma sono tutto sommato sempre supposizioni.

      Rispondi

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