Francesco Baracca

L’Italia è un paese pieno di contraddizioni.

Abbiamo alle spalle varie culture millenarie che si sono avvicendate sul nostro territorio eppure siamo una nazione relativamente giovane, con 158 anni appena di ‘unità’.

Durante la nostra storia -così come oggi- siamo emigrati a frotte in tutto il globo -sfido chiunque a non avere almeno un amico o un parente alla lontana disperso in qualche angolo di mondo- ma siamo terrorizzati dall’immigrazione degli altri.

Per la nostra posizione all’interno del Mediterraneo siamo entrati continuamente in contatto con popoli e tradizioni diverse dalla nostra ma oggi ci spaventa tutto quello che è minimamente differente dal trittico: pizza/campionato/Barbara d’Urso.

Passiamo il tempo a lamentarci dello stato dei nostri servizi pubblici e in contemporanea il nostro tasso d’evasione fiscale è alle stelle.

Siamo questo popolo qui.
Quello della botte piena e la moglie ubriaca.

Faccio notare l’ironia del voler fermare il degrado scrivendo sui muri.

In mezzo a tutto ciò una delle cose che mi manda più ai matti in assoluto è il fatto che la stragrande maggioranza di chi trascorre il suo tempo a strepitare della ‘difesa della cultura italica’ lo fa non possedendo alcuna memoria storica, senza il minimo senso critico e non conoscendo fatti o personaggi importanti per il nostro paese, il più delle volte smarrendo le sue sinapsi in cazzate senza senso come l’ultima edizione del Grande Fratello o le grandi rivelazioni di Pamela Prati su Frank Caltagirone.

Conosco gente che sarebbe capace di citarvi a memoria la formazione del Foggia Calcio del 1958 ma che non ha la più pallida idea di chi sia Sandro Pertini.

Il problema di fondo è che senza la memoria gli avvenimenti tendono a ripetersi, solitamente per mezzo di persone che hanno tutto l’interesse nel mantenere sul passato una nebbiosa cortina di confusione, così da poter più agevolmente raccontare cazzate e/o prendere per il culo il grande pubblico.

Fatti o riferimenti a Salvini realmente esistenti sono puramente casuali.

Tutto questo incipit è per ribadire che una delle motivazioni fondamentali che mi spinge a usare le ore della mia sempreverde insonnia continuando a scrivere qui sopra è un malcelato desiderio di poter contribuire anche solo in minima parte nel rimuovere le cazzate che ci vengono continuamente propinate giorno dopo giorno (dopo giorno).
Quello e la segreta speranza di non dover mai più pagare per ubriacarmi al bar una volta diventato ricco e famoso.

La storia di cui parlerò oggi riguarda un eroe tutto italiano, uno di quelli che non merita di cadere nell’oblio o di venire sostituito da figure eroiche d’importazione.
Gli americani hanno una vera e propria venerazione per i loro Top Gun -rappresentati nel cinema da quel tappo scientologista di Tom Cruise-, qui in Italia abbiamo avuto Baracca, anche se in pochi se ne ricordano…


Francesco Luigi Giuseppe Baracca nasce a Lugo (piccolo comune in provincia di Ravenna) il 9 maggio 1888 da una famiglia decisamente benestante, con in uso i vasti terreni gestiti dalla famiglia paterna miscelati al materno sangue blu spremuto dal ramo dei conti de Biancoli.

Dopo un’infanzia abbastanza tranquilla il nostro protagonista viene direzionato dal padre alla facoltà di legge, ma i suoi sogni sono ben altri e per avere la possibilità di realizzarli decide di sfruttare (come sovente accade in questi casi) l’intermediazione della madre che si mette di traverso nel talamo nuziale finché il marito non capitola e lascia alla fine il suo giovane virgulto libero di intraprendere la carriera militare.

Nel 1909 Francesco esce dall’accademia di Modena con il titolo di ‘sottotente dell’Arma di cavalleria’ e viene assegnato al secondo reggimento ‘Piemonte Reale’ di stanza a Roma, un distaccamento nato nel 1692 dalla volontà del duca Vittorio Amedeo II per unire diversi reparti di cavalleria pesante sotto un unico stendardo e trasformare i suoi membri in macchine di morte su zoccoli con l’unico obiettivo di travolgere e sconquassare le fila nemiche. Ad oggi il reggimento è inquadrato nella brigata alpina ‘Julia’ ed è divenuto uno squadrone di supporto logistico blindato.

Il duca.

 

Il reggimento, ieri (in carica dalla sinistra).

 

Il reggimento, oggi.

Quello che ci serve tenere bene a mente per il proseguio della storia è il loro stendardo: il motto ‘Venustus et Audax’ sulla parte inferiore contornato da nastri svolazzanti (in omaggio al valor guerriero) intorno a un grande scudo diviso in quattro aree distinte: lo stemma dei Savoia, fiamme trifide, croci argentate e UN PULEDRO ALLEGRO RAMPANTE -rimembratelo-.


Il nostro protagonista si sente perfettamente a suo agio nella vita militare, spicca per intelligenza e attitudine al comando oltre che per le sue doti di cavallerizzo (d’altronde ha avuto a che fare con gli equini sin da bambino) che lo portano a trionfare nel concorso ippico di Tor di Quinto.
In quel di Roma inizia finalmente ad avere una vita anche al di fuori della caserma e le prime ad accorgersene sono le frequentatrici dei salotti buoni della capitale che iniziano a notare questo bell’ufficiale alto, colto e dai modi raffinati mentre miete una strage di cuori di cui rimangono come prova alcune lettere appassionate di gentildonne innamorate.


Nel 1912 Baracca si ritrova in quel dell’aeroporto militare di Centocelle (costruito tre anni prima nello stesso luogo dove Wilbur Wright, l’inventore dell’areoplano, aveva dato dimostrazione del suo ‘Wright Flyer’ che raggiungeva la STRAORDINARIA quota di nove metri) a osservare rapito un’esercitazione di alcuni velivoli e decide in quel momento di abbandonare il reggimento di cavalleria per fare domanda nella neonata aereonautica.
Quando in aprile viene mandato a Bétheny, in Francia, per il corso di volo su un avanzatissimo Nieuport-Macchi Ni.10 (un biplano da caccia capace di raggiungere i 140 km/h e i 4000 metri) deve mentire per non far preoccupare l’adorata madre dicendole che va nel paese delle baguette per studiare la lingua.
A 24 anni si ritrova a usare la stessa scusa dei sedicenni che partono oggi per l’Erasmus con il segreto obiettivo di conoscere principalmente alcool e genitali stranieri -non necessariamente in quest’ordine-.

Il Wright Flyer, fatto di legno, tela e speranza di non precipitare al suolo da nove metri e che si guidava da sdraiati.

 

Nieuport-Macchi Ni.10, perlomeno potevi stare seduto mentre speravi di non andare giù.

In poco meno di tre mesi il nostro protagonista riesce a ottenere il brevetto n.1037 e si distingue sin da subito per le eccezionali capacità nel volo acrobatico che vengono subito notate dai caporioni del Battaglione Aviatori che arrivano a litigarselo a lungo fra la quinta e la sesta squadriglia.

Sullo sfondo intanto si addensano minacciose le nubi della Prima Guerra mondiale.

Baracca rientra in Italia nel luglio del 1915 e dopo qualche missione di ricognizione fra i ranghi dell’ottava squadriglia qualcuno nella catena di comando decide di affidargli un nuovo modello di Nieuport-Macchi, il ‘Bebè 11’, che surclassa nelle prestazioni il Ni.10.
Sono gli anni (nemmeno poi troppo lontani) in cui l’areonautica militare muove i suoi primi passi insanguinati all’interno dei conflitti e caccia come il Nieuport sono utilizzati perlopiù per valutare dall’alto forze e movimenti delle truppe nemiche e solo saltuariamente per ingaggiare dei duelli aerei che solitamente finiscono con un nulla di fatto poiché LE MITRAGLIATRICI SONO MONTATE SULL’ALA ALTA DEI BIPLANI E IL PILOTA DEVE CONTEMPORANEAMENTE: ALZARSI, MIRARE, SPARARE ED EVITARE CHE L’ARMA SI INCEPPI VIRANDO CON LA CLOCHE FRA LE COSCE, il tutto intorno mentre si toccano i 100 km/h a centinaia di metri dal suolo.

Immaginate la precisione.

Chi non ha questo problema sono i tedeschi alla guida dei Fokker M.5 che montano le prime mitragliatrici che fanno fuoco sincronizzandosi con l’elica, il che spiega anche perché sul campo di battaglia questi caccia si guadagnano presto il soprannome di ‘Flagelli’, almeno finché nel 1916 francesi e inglesi non si dotano dello stesso armamento.

Viel besser (molto meglio).

In questo bailamme di proiettili, eliche, corpi smembrati, bestemmie, cabrate assassine e piloti con una durata di vita media molto risicata, il 7 aprile del 1916 Francesco effettua IL PRIMO ABBATTIMENTO AEREO DELLA STORIA ITALIANA, sconfiggendo nei pressi di San Giovanni al Natisone (Friuli) un ricognitore austriaco dopo un estenuante inseguimento portando QUARANTACINQUE colpi a segno.


“È all’apparecchio che io miro, non all’uomo” diventa la frase con cui assurge agli onori delle cronache, insieme al fatto che mantiene una condotta cavalleresca d’altri tempi nei confronti dei nemici, evitando di uccidere i piloti e quando possibile andando da loro a stringergli la mano per congratularsi per il bel combattimento e arrivando in qualche caso a chiedere consigli su come migliorare il suo stile.

Fair play in guerra signori, quando oggi manca pure alle partite dei pulcini delle scuole calcio.

In poco meno di sei mesi ottiene cinque abbattimenti personali, sette vittorie individuali e altre tre in collaborazione con altri piloti. Viene decorato con tre medaglie d’argento, promosso capitano e nel 1917 gli viene affidato il comando della 91esima squadriglia (soprannominata subito ‘La squadriglia degli Assi’) e carta bianca sulla scelta dei suoi membri -fra gli altri Guido Keller, un tipo completamente matto che verrà ricordato dalla storia perché durante la presa di Fiume trascorre il tempo perennemente strafatto di cocaina appollaiato sugli alberi in compagnia di un’aquila addestrata, ma anche perché è un pilota della madonna-.

Keller, in una delle sue foto più sobrie.

La 91esima viene fornita dei nuovissimi Nieuport 17 ed è in questo periodo che prende piede anche fra le fila italiane l’abitudine di dipingere sugli aerei gli stemmi distintivi dei piloti. Dovete tenere conto che la radio sui biplani era ancora pura fantasia e non era infrequente che nel mezzo dell’azione il fuoco amico diventasse un serissimo problema (sia Baracca che Keller per poco non vennero abbattuti perchè scambiati per austriaci). Manfred Albrecht von Richthofen, il ‘Barone Rosso’ aveva optato per dipingere l’intero biplano di un rosso scarlatto, Baracca rimestando fra le sue origini militari tira fuori il cavallino rampante dello stendardo del suo vecchio reparto di cavalleria.


Tenetelo ancora a mente, ci servirà sul finale.

A capo della sua squadriglia diventa il pilota italiano con il maggior numero di abbattimenti all’attivo (diciannove nel 1917), viene promosso maggiore e diviene una figura chiave nella propaganda di guerra che ha un sacco bisogno di eroi per sollevare il morale delle truppe, costrette in trincee fangose, fredde e piene di pidocchi fra un inutile massacro e l’altro.

“Stiamo una favola raga, tranquilli.”

Uno SPADQuando alle due del mattino del 24 ottobre le stanche armate austro-ungariche si riorganizzano insieme alle truppe smobilitate dal fronte russo (che ha in quel momento problemi rivoluzionari più pressanti che partecipare alla guerra) e vengono rinforzate dall’aggiunta di addestratissimi tedeschi, le linee difensive italiane vengono sfondate come una teenager russa in una gangbang interracial e ha il via la tremenda disfatta di Caporetto che fa retrocedere un regio esercito italiano che pare ormai allo sbando fino alla linea del Piave.


Lo stato maggiore tenta di coprire come può le truppe in fuga, scagliandogli addosso tutto quello che gli è rimasto, Arditi addestrati nel karate e squadriglia di Baracca compresa.

I piloti della novantunesima (l’élite dell’elite dell’aviazione italiana, gente che solitamente aveva il compito di fare da scorta ai generali) vengono impiegati in missioni continue al limite del suicida. Partono, valutano le forze nemiche, combattono in volo in netta inferiorità numerica contro le tre squadriglie di temibili Jastas tedeschi che sorvolano imperterrite lo spazio aereo, mitragliano con virate impossibili le truppe a terra, i carri di rifornimento e l’artiglieria tentando di rallentare i nemici come possono, tornano al campo di volo e se per qualche astrusa ragione sono riusciti a sopravvivere senza fondere il motore del biplano, possono bere un caffè prima di dover ripartire per una nuova missione.


Baracca a bordo del nuovissimo SPAD S. XIII (uno dei migliori biplani dell’intero conflitto) arriva in questi giorni difficili all’impressionante traguardo di TRENTA vittorie, prima che qualcuno si renda conto di quanto sia necessario farlo riposare un attimo prima di rischiare di ritrovarselo ad abbattere aerei nemici a cazzotti e bestemmie.

Uno SPAD S. XIII.

Il 6 novembre, mentre siamo ancora in piena ritirata verso il Piave, il nostro protagonista torna in azione talmente incazzato che abbatte a sputi Rudolf Szepessy-Sokolln che dall’alto delle sue cinque vittorie precipita sul terreno di Fossalta di Portogruaro (Venezia). La vittoria vale a Francesco una medaglia d’oro al valore e una riassegnazione momentanea lontano dalla prima linea che si stava andando a riorganizzare, per quanto a fatica.

Il 15 giugno del 1918 porta i suoi abbattimenti confermati a trentaquattro (su sessantatre scontri aerei) e quattro giorni dopo si ritrova a fare base al campo di volo di Quinto di Treviso. Qui decide di utilizzare uno SPAD S. VII (date le condizioni disastrose in cui versa il suo S. XIII) per la quarta missione della giornata, portandosi dietro come gregario il nuovo arrivato, l’inesperto Franco Osnago.

Dopo aver effettuato uno dei tanti mitragliamenti radenti sul colle del Montello (Treviso), Osnago ha solo il tempo di vedere lo SPAD di Baracca precipitare prima di doversi disimpegnare per i proiettili che piovono da tutte le parti. Quando torna a Quinto di Treviso e racconta trafelato cos’è successo l’intera 91esima squadriglia si alza in volo alla ricerca del suo comandante.


Il cadavere del più grande pilota dell’aviazione italiana viene ritrovato il 23 giugno da Osnago stesso alle pendici del Montello, in località Busa delle Rane, a fianco dei resti del suo velivolo. Il corpo presenta ustioni in più punti e ha una ferita profonda nell’incavo dell’occhio destro.

Il monumento funebre dedicato a Baracca, a Montello.

Per anni si è speculato su chi o su cosa abbia causato la fine del nostro protagonista (colpo di cecchino da terra, malfunzionamento del motore, mitragliatrice di bordo esplosa, suicidio con la pistola d’ordinanza per evitare di morire per le ustioni) ma la realtà è che con tutta probabilità è stato abbattuto dal biplano austriaco pilotato da Max Kauer e Arnold Barwig che (come riportano i loro rapporti, sempre ferocemente ignorati dalla propaganda italiana) sono giunti non visti da sopra le nuvole hanno avuto così il tempo necessario di avvicinarsi quel tanto che basta per centrarlo con le prime due raffiche.

Il 26 giugno a Quinto di Treviso le autorità civili, militari e un commosso Gabriele d’Annunzio (suo grande estimatore) tengono un sentito elogio funebre prima di seppellire i suoi resti in una cappella a Lugo.


Nel 1923 la madre di Baracca incontra un misconosciuto imprenditore, tale Enzo Ferrari, e gli consegna il simbolo distintivo del figlio dicendogli: “Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna”.
Cosa che in effetti avvenne.


Forse meno noto è il fatto che anche la Ducati utilizzò dal 1956 al 1961 lo stesso marchio, in questo caso perché il progettista capo Fabio Taglioni proveniva anche lui da Lugo.

Io lo avevo detto di tenerlo a mente, il cavallino rampante.

Chiudo con le motivazioni alla sua medaglia d’oro al valor militare:
“Primo pilota da caccia in Italia, campione indiscusso di abilità e di coraggio, sublime affermazione delle virtù italiane di slancio e di audacia, temprato in sessantatré combattimenti, ha già abbattuto trenta velivoli nemici, undici dei quali durante le più recenti operazioni. Negli ultimi scontri, tornò due volte col proprio apparecchio colpito e danneggiato da proiettili di mitragliatrici.”

Quando sentite qualcuno che sviolina i Top Gun statunitensi da oggi siete autorizzati a urlargli in faccia: “SI’ OK MA VUOI METTERE CON BARACCA?” mentre lasciate la stanza.


 

 

 

Luca Porrello

Vivo in un bosco. Soffro di insonnia. La combatto scrivendo (e bevendo). E' partito tutto così. Se vi è piaciuto quello che avete letto cercate Personalità Buffe anche su Facebook.

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